Sì, cari amici, devo confessarvi
candidamente che ho varcato la porta della fede fin da quando “ho succhiato il
latte”, cullato dolcemente dalle braccia di mia madre Maria (che bel nome e
quanta assomiglianza con la Santa Vergine!). Fin da allora, ho avvertito che si
trattava di una iniziazione alla “gioiosa danza della fede”.
Avvertivo che i movimenti lenti e
cadenzati di mia madre, accompagnati da una nenia antica che cantava la dolce
melodia dell’amore, eco dell’amore misericordioso e gratuito di Dio, erano
“parole di fede”, sussurrate teneramente e impresse nel mio animo come fossero
spezzoni di una melodia celeste.
Più tardi ho avuto la conferma e
ho compreso (dati alla mano!) che nei gesti e nella cantilena di mia madre vi
era una implicita allusione alle grandi opere compiute da Dio nella creazione e
nella storia della salvezza.
Si è così instaurato un dialogo
con questa donna, “sorgente e culla” della mia vita che non si è più
interrotto. Il cordone ombelicale della fede materna non si è più spezzato.
Anzi con il passare del tempo si è approfondito e rafforzato, fino a
trasformarsi in un sogno lungamente accarezzato e continuamente richiamato alla
memoria.
Ho imparato a gustare le dolci
atmosfere della famiglia nella quale ogni gesto assumeva il sapore di una
“liturgia domestica”, il flusso caldo di affetto condito con i sapori genuini
della casa e la dignità di parole che avevano la forza di descrivere, anzi di
costruire attorno a me un luogo che in seguito mi sarebbe sembrato quasi un
“paradiso terrestre”!
Sulle ginocchia di mia madre,
mentre stringevo le mie mani al suo seno, mi sembrava di abbracciare qualcosa
di divino. Veniva così spontaneo “credere”. La fede (lo avrei capito meglio
dopo) consisteva nel vedere in modo chiaro che la realtà nasconde qualcosa di
sublime, che toccare un corpo significa avvertire un calore che trasmette il
senso di una sicura protezione e che lasciarsi accarezzare da una mano fa
vibrare di gioia il cuore.
Sono queste le sensazioni che mi
sono venute in mente la prima volta che ho letto le parole del profeta Isaia:
«Si dimentica forse una donna del suo bambino così da non commuoversi per il
figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io, invece,
non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani» (Is
49, 15-16).
Tra le pareti domestiche ho
assaporato il valore della fede che si esprime come “comunione fraterna”.
Ritrovarmi con i miei fratelli e mia madre attorno alla tavola per consumare un
pasto frugale con la gioia che veniva dallo stare insieme è stato un
ammaestramento che non ho più dimenticato. Avrei ben presto capito che riunirsi
nello stesso luogo, condividere i beni disponibili, spezzare il pane insieme,
conversare fraternamente erano gesti dal chiaro valore sacramentale ed
eucaristico e che la fiducia reciproca era la giusta atmosfera per comprendere
il miracolo dell’unità.
Ho trascorso giorni felici nel
mio paese, abitato da gente semplice che conserva ancora oggi i tratti di una
antica nobiltà. Lì ho imparato l’importanza dei “volti”. Nella Chiesa
parrocchiale, per le strade del paese, nelle case dei parenti e degli amici ho
scoperto che il volto dell’altro è molto di più di una semplice “figura
esteriore”. Nei lineamenti di un bambino, di un giovane o di un anziano è
impressa una storia personale che nessuna parola riesce compiutamente ad
esprimere. Occorre avere “gli occhi dell’amore e della fede” per vedere
nell’altro i lineamenti del “Volto invisibile”, di quel mistero che tutti ci
avvolge.
Frequentando il convento dei
frati cappuccini ho ammirato la luminosa bellezza di “Madonna povertà”. La sua
avvenenza mi ha sedotto! No, non ha senso trattenere nelle proprie mani i beni
materiali come fossero un tesoro personale; non dà gioia vivere solo per
l’arricchimento e l’accumulo di denaro: la mente si inebria, il cuore si
indurisce, i sentimenti si smorzano. Rimane solo la falsa illusione di aver
acquisito un potere che ben presto mostrerà la sua vanità. Cari amici, ve lo
dico con il cuore in mano: “Non arricchitevi. Non vale la pena affannarsi. Non
vedete i gigli del campo. Non mietono, non seminano eppure Dio li nutre.
Risplendono di un candore che illumina la vista ed emanano un profumo che
inebria il cuore”. La felicità non è nelle ricchezze, ma è nascosta altrove!
Sostando alcuni anni a Bologna,
ho scoperto dove era questo altrove. In quella straordinaria città, fucina di
nuove atmosfere, ho compreso che solo la fede carica di amore ha la capacità di
saziare il cuore dell’uomo. Una fede, però, che non è solo uno sguardo rivolto
verso il cielo, ma è un ardente desiderio di entrare “nelle vene della storia”.
Mi sono esercitato un poco a percorrere i sentieri calpestati quotidianamente
da tutti, assaporando le gioie semplici e nascoste nella vita quotidiana: la
fatica del lavoro, il bisogno di compagnia, l’attenzione ai problemi sociali,
l’impegno per la giustizia, la sofferenza dei poveri, il dolore degli umili.
È stata una lezione di vita che
ho cercato di trasmettere ad Ugento dove, per un lungo periodo di tempo, mi sono
impegnato a condurre per mano le nuove generazione e ad aprire loro i tesori
nascosti nella fede in Cristo. Credere in lui è una proposta di vita, un
cammino mistagogico, un’educazione permanente. Vivendo a stretto contatto con i
ragazzi e i giovani ho voluto far percepire che la fede è vita e che la vita è
bella.
La vita, però, ha anche i sui
lati imprevedibili e, talvolta, sembra prendere una direzione non prevista.
Così, non senza qualche rimpianto, mi sono trovato a lasciare la comunità del
Seminario e ad assumere la responsabilità della parrocchia di Tricase. Il clima
effervescente che si respirava nel post-concilio e la frequentazione di
sacerdoti e laici dotati di una forte personalità hanno impresso un’altra
svolta alla mia vita. Mi è parso più chiaro che la fede deve diventare anima
della società e deve innestarsi nel tessuto di un popolo, trasformando dal di
dentro la cultura e i valori di riferimento. Ho vissuto poco tempo in questo
nuovo ambiente, ma quelli anni sono stati “travolgenti”, e hanno acceso un
fuoco incontenibile, un amore appassionato e sconvolgente.
Per questo, quando mi hanno
chiesto di trasferirmi a Molfetta, non è stato facile lasciare la “mia” gente e
quel mare accogliente come un grembo materno e forte come un leone ruggente.
Prima di partire, sono andato lungo il molo a cantare il mio amore e la
struggente tristezza dell’addio. Come due innamorati ci siamo scambiati
reciproca ed eterna fedeltà e abbiamo pattuito che, certo, ben presto ci
saremmo rivisti. Sapevamo di non poter fare a meno l’uno dell’altro. Ci siamo
detti che la “lontananza non è come il vento” e che la ”distanza non fa
dimenticare chi si ama”. Quella sera (ma era già notte avanzata) è stato molto
difficile staccarsi da quel posto incantevole. Non so bene come sono riuscito
percorrere la strada del ritorno a casa.
Mentre mi dirigevo a Molfetta,
pensavo a queste cose e mi confortava il fatto che anche lì avrei trovato il
mare. Ma (ognuno lo comprende) c’è mare e mare! Tuttavia, quasi volendo
ingannare me stesso, dicevo che, a ben vedere, l’acqua è sempre la stessa e che
la somiglianza, talvolta, annulla la differenza. Ho imparato così ad amare la
nuova compagnia. E questa resa obbediente alla Voce mi ha consentito di
comprendere che la fede deve assumere la forma di “segno” e di “servizio
incondizionato verso tutti”.
Così, quasi per caso e senza un
progetto ben definito in partenza, pur se coltivato lungamente nel cuore fino a
farlo diventare motto del mio nuovo servizio ministeriale, mi sono imbattuto in
una numerosa serie di “nuovi amici”. Li ho incontrati nei posti più diversi,
dove non avrei mai pensato di poterli incrociare: abbandonati sopra la panchina
di un giardino pubblico, nascosti sotto una barca rovesciata sulla riva del
mare, accasciati sulla soglia di un portone di un palazzo, addossati accanto
alle porte di bronzo delle Chiese. (Non si è mai capito se erano le porte a
sostenerli o se erano loro a mantenere saldi gli stipiti e gli architravi di
quelle splendide porte). Molti li ho raccolti e li ho portati a casa. Ci siamo
affezionati vicendevolmente. Avrei voluto accoglierli tutti. Sapevo con
certezza che ognuno di loro, pur se all’apparenza poteva sembrare un “palazzo
diroccato e di poco pregio”, in realtà aveva il valore di una “cattedrale
divenuta basilica maggiore”.
Lo confesso candidamente: questi
gesti non sono stati condivisi da tutti. Non sempre sono stato compreso.
Talvolta gli equivoci e le diffidenze sono state molto resistenti. Non nascondo
che alcuni giudizi, taglienti e affilati come lame che penetrano nella carne
viva, hanno provocato in me non poche ferite. Avevo però la chiara coscienza di
percorre il sentiero che mi era stato indicato. Non quello scelto da me, ma
quello sussurrato dalla Voce. E questo mi ha dato fiducia. Così ho continuato
ad amare tutti “fino alla fine”, fin quando mi sono “ammalato d’amore”! La
follia dell’amore non si può spiegare se non a chi è disponibile a lasciarsi
afferrare e consumare dall’amore.
Mentre farneticavo, roso dal
dolore e dalla malattia, mi sembrava di aver “combattuto la buona battaglia e
aver conservato la fede”. Nei momenti di lucidità, ho affidato il giudizio
sulla mia vita a chi ha più sapienza di me.
Se ho desiderato fare ritorno al
mio paese è soprattutto per riposare per sempre accanto a mia madre. Tremavo di
tenerezza al pensiero che avrei potuto ascoltare, ancora una volta come facevo
da bambino, il suo caldo respiro e l’incantevole suono delle sue dolcissime
nenie.
Mi sembrava giusto ritornare nel
luogo da cui ero partito per radicarmi in modo più profondo nella mia terra e
piantare il seme della speranza lì dove essa mi era apparsa come stella che
orienta il cammino.
Avevo visto fin da piccolo la sua
luminosa bellezza. Non era la luce di una qualsiasi speranza, ma di quella che
si staglia sulla croce e poggia sulla roccia, su Cristo Risorto, l’unico che ha
il potere di spalancare la porta dell’eternità dalla quale è possibile accedere
a quell’amore che brucia come un fuoco inestinguibile.
Piantato come un seme nella nuda
terra, ho continuato ancora a sognare e, per quanto mi è possibile, a
trasmettere le utopie della fede che hanno dato sapore alla mia vita. Ed è da
quel nascondiglio sotterraneo, cari amici, che vi ho scritto questa lettera. Ho
pensato di indirizzarla a Mons. Vito Angiuli, Vescovo di Ugento-S. Maria di
Leuca, perché la faccia pervenire a tutti voi.
Siatene certi: non vi ho
dimenticati. Vi porto tutti nel cuore. Per questo vi saluto con affetto.
Custodite anche voi, nel vostro animo, il ricordo della mia persona. Così il
dialogo potrà continuare e trovare vie di accesso più segrete e personali.
Non dimenticate, però, di dire a
tutti, anche a nome mio, che la vita è bella e che la speranza non delude!
Se potete, venite a trovarmi.
Sarà bello continuare a frequentarci e ad apprezzare, nel silenzio della
preghiera, l’inestimabile valore della fede, perla preziosa per la quale vale
la pena di lasciare ogni altra cosa. Non sciupatela, ma arricchitela con la
vostra testimonianza. Il mondo ne ha un grande bisogno.
Vi saluto con affetto.
Vi voglio bene!
Vostro don Tonino
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